lunedì 22 novembre 2010

Prove di mammità




Passo il venerdì sera dai miei rotolata per terra tra palline colorate e peluches; mi alzo il sabato mattina alle otto pronta a correre e a giocare per le quattro ore consecutive, anche al freddo o sotto la pioggia, dopo una settimana di lavoro per cui non basterebbero due giorni di sonno consecutivi per recuperare; se devo andare dal parrucchiere e poi, per dire, a un matrimonio, mi organizzo con quei santi dei miei genitori, che la vengono a prendere dopo la scuola, per portarla con loro in campagna; corro come una pazza furiosa, e nonostante questo mai maledico di essermi presa un impegno in più, come mi è d’abitudine invece fare per tutte le ennemila attività che pratico; quando la vedo andare via, e gira il collo per cercarmi, e mi guarda dalla macchina che si allontana, anzi, mi si stringe il cuore, e poi sento che mi manca per il resto del tempo che avrei passato con lei; il sabato sera quando lei è con me lo dedico tutto alle coccole, magari davanti a un bel film; il week end passa tutto felicemente assecondando i suoi tempi di gioco, sonno, bisogni e pappe; se anche si esce una sera o si decide per una passeggiata pomeridiana in centro, lei è sempre con noi, e generalmente al centro delle attenzioni nostre e degli amici.
Ed io adoro tutto questo. Adoro pensarla e che mi brillino gli occhi e il sorriso mi diventi ebete quando parlo di lei. Adoro provare questo amore folle. Anche se la bimba in questione è una cucciola di Golden Retriever, sto provando credo qualcosa di simile alla dedizione di una mamma.



L’amore incondizionato, il senso di protezione, il desiderio di darle tutto quello di cui ha bisogno, la profonda voglia di farla stare bene e di renderle tutto l’infinito affetto che lei sa concedere, pur certa che mai potrò arrivare a tanto. La consapevolezza che ogni sacrificio, ogni fatica, non potrà che essere ripagata da un'intima felicità e da quel senso di appagamento che dice al tuo spirito: stai facendo del bene a qualcuno che ami, a qualcuno che ha bisogno di te.
E anche un po’ di quel viscido senso di colpa, che s’insinua tra le pieghe delle mie troppe serate passate in ufficio, mentre sento che da qualche parte, non troppo lontano da me, un piccolo dolce esserino ha voglia di leccarmi la faccia e di godersi le sue – meritatissime – corse, condite dalle mie risate e da mille coccole.



Se faccio così con un cane, direi che per quando sarò mamma mi converrà proprio potermi organizzare con un bel part-time :)

lunedì 25 ottobre 2010

Aspettando di essere mamma: ho viaggiato. Siria e Giordania


Il Medio Oriente. Mi affascinava da molto. Ero già stata in Turchia, evitando però le troppo calde zone ad est. Calde in senso politico, perché le temperature estreme di agosto non me le sono comunque mai risparmiate.
Qui però ho toccato confini mai raggiunti. In ogni senso.

In Siria non si ci capacitava delle temperature percepite. Finché una sera intorno alle dieci un termometro ci ha comunicato che l’incubo che da giorni stavamo vivendo erano 39 gradi, e un passante, trovandoci folgorati su quella via di Damasco, ha voluto farci presente che ci trovavamo nel bel mezzo dell’ estate siriana più calda dell’ultimo ventennio: durante il giorno si toccavano solitamente i 48 gradi.
Ah, ecco cos’era che mi sfibrava le membra e mi annebbiava il cervello. Ecco a cosa devo dare la colpa adesso che, quando mi chiedono di raccontare, delle volte mi pare di non essere nemmeno stata li.

In Giodania l’unico luogo in cui non abbiamo patito l’eccessiva calura è stata la oltre che fresca splendida Petra, che si trova in montagna. E meno male, dato quanto abbiamo camminato.

In compenso ad Aqaba, 12 km dall’Arabia Saudita, pareva di stare costantemente, in ogni momento della giornata, di fronte a un gigantesco phon; la sera l’unica cosa che mancava era il sole, ma la temperatura rimaneva invariata. Nei cantieri gli operai lavoravano di notte (compreso quello della moschea che era in costruzione proprio di fronte al nostro albergo, per evitare i colpi di calore, dato anche che il mese di Ramadan, durante il quale i musulmani non possono né bere né mangiare dal sorgere al calare del sole, cadeva quest'anno proprio in agosto.

Nel Mar Morto poi, mi sono resa conto di quanto sia difficile rimanere vivi! Le temperature sono indescrivibili, dentro e fuori dall’acqua.

In Siria ci è capitato di vedere la gente arrabbiata e imbruttita dalla situazione politica. E ci è capitato di non poter parlare di politica, pur morendo dalla voglia di sentire l'opinione della gente nei confronti del dittatore la cui figura è affissa a dimensione naturale sui palazzi pubblici, stampata sulle insegne dei negozi, scolpita nei muri, e addirittura troneggia su quadri nelle abitazioni private o su poster che scuriscono i vetri delle auto.
Quel dittatore non sarebbe poi sulla carta un dittatore, perché è stato eletto dal suo popolo. Dal 97% del suo popolo. Peccato però che fosse unico candidato. Peccato che suo padre, da cui ha ereditato il potere e il tipoco baffetto mediorentale, abbia bombardato nel 1985 un’intera città siriana, uccidendo 20.000 civili, per colpire un gruppetto di dissidenti che lì si era insediato. Eh si, sono mondi in cui va così.

In Giodania, Aqaba (meravigliosa località sul Mar Rosso) era praticamente deserta, perché giusto due settimane prima qualche missile era giunto in visita dalle coste di fronte, finendo in mare, sulla spiaggia, oppure nel parcheggio di un albergo di lusso appena costruito, dal quale i turisti si sono affrettati a cancellare le prenotazioni.


Siamo arrivati a Damasco alle sette di mattina, e già alle otto non potevamo più camminare per cercare un albergo. Soffocante. Estenuante.

Siamo in centro. Chiediamo informazioni a una famiglia che approfitta dell’alba per godersi un po’ di fresco. Accostandoci ci rendiamo conto che sono padre madre e figlia seduti su una panchina sistemata strategicamente di fronte a un muro. Ci chiediamo perché, rassegnandoci prima ancora di iniziare a pensarci veramente. Sappiamo benissimo che ogni Paese lascia delle domande a cui non si hanno elementi per rispondere.

Quando mi giro però osservo l’ambiente in cui è inserita quella panchina e mi faccio un’idea rispetto alla domanda di poco prima. Che la posizione vista-muro sia strategica?

La gente dorme sulle aiuole - tra rifiuti sparsi ovunque - presumibilmente da tutta la notte data l’ora mattutina. In diversi momenti della giornata, comunque, questo piccolo pezzo di erba in mezzo al cemento, allo smog, a rumori e calori insopportabili e soprattutto all’immondizia, viene vissuto con grande partecipazione, per colazioni, merende, pic-nic, pennichelle.

Il cemento che circonda il parco non è un gran bel cemento, comunque.
Le case sono tutte incompiute. Se il piano terra è abitato, il secondo è uno scheletro da cui spuntano addirittura le anime di metallo delle fondamenta, lasciate sempre a emergere sopra i palazzi. A volte interi edifici sono ridotti così. E la cosa buffa è che non ci lavora mai nessuno, non esistono cantieri. Questa situazione urbanistica rende l’atmosfera ancora più caotica e disordinata. Sembra una città bombardata e mai ricostruita. Damasco è la città più vecchia del mondo, dicono. E io rispondo che, se veramente è così vecchia, dimostra decisamente la sua età.
Più o meno questo è l’effetto che si prova in ogni città siriana. Paradossalmente l’unica che è stata veramente bombardata (nell’85, vedi sopra) è quella che è stata ricostruita meglio, e sembra quasi avere una logica.

In Siria vedo le donne per strada e provo pena per loro. E’ probabile che loro ne provino per me, che sono costretta a vestirmi da Sbirulino (ma quale donna ha nell’armadio t-shits e camicie comode e pantaloni lunghi ma leggeri? L’abbigliamento da viaggio nei Paesi arabi è decisamente di fortuna). Pur vergognandomene mi sento più fortunata di loro, nei miei vestiti comprati al mercato per due euro. In particolare, quando sono costretta a indossare un abito simile ai loro e a dover coprire il capo con la mia pashmina per visitare la Moschea degli Omayyadi, non mio godo affatto la bellezza del luogo, non vedo l'ora di togliermi quella roba di dosso, mi manca il respiro. E capisco che a 50 gradi all’ombra potersi permettere una maglietta a maniche corte è un lusso a priori.


Le donne quaggiù hanno a disposizione un sacco di possibilità, ma nulla che crei meno di 80 gradi tra la pelle e i vestiti.
Rispetto alle classiche e ormai superate palandrane all-black che effettivamente non sono tanto giovanili, qui possono scegliere tra cappottini lunghezza caviglia di vari modelli e fogge, negli allegri toni dal marrone al nero. Abbottonati fino al collo, attorno al quale passa anche un fazzoletto che copre quantomeno tutto l’ovale del viso, se non molto altro.
Sotto questi cappottini, che sono di cotone, si, ma non mi sembrano proprio di tessuto impalpabile, le poverine sono ovviamente del tutto vestite, con pantaloni e maglie lunghe.
Quelle che a vederle ti fanno star peggio indossando la mantellona integrale che copre anche il viso, lascia scoperta solo gli occhi, e portano anche gli occhiali da vista!


Ci sono però poi anche ragazze giovani che vestono jeans attillati e dei bellissimi fazzoletti colorati che fasciano i visi splendidi e splendidamente truccati e i lunghi capelli raccolti.

Ho chiesto a una ragazza che gestisce un albergo di Aleppo da cosa dipendessero queste discrepanze, se la donna possa decidere per sé o se invece sia completamente asservita al volere di chi la controlla, padre o marito che sia. Lei risponde che dipende da quanto è praticante la famiglia della donna. E si affretta a concludere: “I’m Chiristian, Thanks God, Thanks God”.


A proposito di religione. Immagini, Piccole Grandi Lezioni di Tolleranza

Seduti nel bar di una stazione degli autobus di Damasco, alla ricerca di un riparo dalla calura che ci assilla, abbiamo di fronte due ore di attesa.
Un uomo ci si avvicina incuriosito. Gli manca una gamba e tutti i denti. Cammina con una stampella di legno di quelle che si vedono solo nei fumetti.
Ci chiede di dove siamo, parlando un po’ d’inglese. Welcome Welcome, dice come d’uso. Poi “You look like Phristo” dice, con le lettere che sbattono tra le gengive e la lingua, a Lui indicandogli il viso barbuto. “I’m Cristo here, but I’m Budda here”, ribatte Lui schiaffeggiandosi sonoramente la mano sulla panza! Ridiamo tutti e tre di gusto, con la felicità negli occhi.



Siamo nella piccola cittadina di Palmira, in Siria. Il villaggio sorge in mezzo al nulla del deserto, almeno tre ore di viaggio dalla prima grande città. Vive, ed è nato, sul turismo, accanto all'omonima vecchia città romana. Eppure gli abitanti guardano noi occidentali con sorprendente curiosità. Ci chiedono qualsiasi cosa non sia per la loro cultura troppo invadente, cercando di scoprire elementi della nostra vita, a volte forse anche per sognarci un po’ su.
Ci chiedono dove viviamo, che lavoro facciamo, se siamo sposati. Se non capiscono la risposta, non concependo che possiamo essere “fidanzati” a 30 anni suonati, noi gli diciamo che si, siamo sposati. In fondo per noi è praticamente lo stesso. E allora "where is the ring?" Ehm...la fede? L’abbiamo lasciata a casa, rispondiamo.
Dulcis in fundo, vogliono sapere se siamo cristiani. Noi: certo, si, siamo cattolici.
“Welcome Welcome, for us it’s the same”, sorridono. E ci invitano a sederci con loro, sugli scalini di fronte a un casa, o sulle sedie posizionate sul marciapiede, come nei paesini del sud Italia.

giovedì 29 luglio 2010

The Final Countdown, ovvero clamorose vendette

Oggi il collega A. ha creato la mirabile evoluzione del file Excel che calcola i giorni mancanti alle ferie. Questo calcola i minuti. “Per la precisione – mi ha scritto girandomelo via mail – Dopotutto sono un ingegnere, uno preciso, nonostante l'intollerabile confusione che ci circonda in quest'azienda”. E per la precisione, appunto, domani alle otto e trenta mancheranno 480 minuti lavorativi all'inizio delle tanto agognate vacanze. Se tutto va bene. Ma non sono ottimista. Credo me ne occorreranno almeno 60, per non dire 120, supplementari, per tentare di finire tutto quello che ho da fare (Minuti pagati? Non pagati? E se pagati, come? In Busta? In bustarelle? Buoni Benzina? Miglia Alitalia? Uova di Paqua? Ingressi al Billionare? Non è dato sapere).

Attualmente in azienda sto facendo due lavori. Cioè oltre al mio, il solito, mi è stata affidata una seconda mansione. Una che un'impiegata, normalmente, necessiterebbe otto ore al giorno per svolgere e che invece io dovrei eseguire in quattro, con diecimila cose buttate in mezzo nel frattempo.

Sono indecisa su se The Boss mi abbia presa per Wonder Woman o per il rag. Fantozzi. Il risultato comunque è lo stesso, e non mi piace. A causa dell'intollerabile confusione di cui parlava il collega A. ideatore del file countdown, mi ritrovo ad essere uno straccio alla vigilia del viaggione che mi aspetta.

Il tutto, sintetizzando veramente parecchio, nasce dall'esigenza di sostituire la maternità di una collega.

Mi viene un dubbio atroce. Che non siano solo il desiderio materno e la voglia di intimità con Lui a spingermi a progettare, a partire dal 481mo minuto (o poco dopo, nel caso si andasse ai supplementari), di fare freneticamente la Cosa Principale da fare quando si vuole diventare mamme. Sto tramando inconsciamente clamorose vendette.



giovedì 15 luglio 2010


Ceti sociali


“Sai l’amica G.? quella sposata con l’amico V.? sta per avere il secondo.”

“Di già?

“Eh, abbiamo cercato di spiegarglielo, a V., che oggigiorno esistono validi metodi contraccettivi, dato che pare che i genitori non siano stati troppo esaustivi.”

“Eheh. Bé, insomma, adesso diventa impegnativo.”

“Mah, lei lavora part time e ha un esercito schierato per guardarle la bambina. Tata, puericultrice, Minnie, Topolino, Qui Quo Qua, Superpippo …”

“La puericultrice?? La tata più la puericultrice? Senza contare gatti cani topi e paperi”.

“E sai invece l’amica B.? Ha partorito da tre settimane ed è già tornata a lavorare. Lei l’aveva detto che avrebbe fatto una maternità di 15 giorni. Certo che quando hai la tata diurna e la tata notturna tutto diventa più semplice”.

“Ah, in casa di B. niente puericultrice?!.”

Quando Babywish ascolta questo genere di storie cerca di darsi un tono ma sente inadeguata.

Lei sa che probabilmente, dopo una maternità di 15 giorni contati pur non essendo libera professionista, sarà una di quelle mamme che vedono il meraviglioso frutto del loro seno solo nelle ore più infami, quelle in cui perlopiù sa farsi odiare, e istiga allo scaraventamento giù dalla finestra. Le tristemente famigerate ore notturne.

Sa che probabilmente si troverà a una quindicina di km dall’amore della sua vita, immersa tra plichi di fatture da fotocopiare, mentre lui pronuncerà per la prima volta, incerto e stupefatto di sé stesso, “pa-pà” (non sa bene motivarlo, ma ha come la sensazione che al pupo non uscirà di dire “ma-mma”, in quel momento); la stessa distanza li dividerà – stavolta lei sarà al telefono a cercare di interpretare l’incomprensibile inglese di un filippino - quando il suo cucciolotto sarà intento ad alzarsi sulle cicciosissime gambette per muovere i primi timorosi e scoordinati passetti. Mentre lui cadrà sul sedere imbottito, lei chiuderà la telefonata col filippino, e forse un brivido le percorrerà la schiena.

Sa che non assumerà tate notturne per non odiarlo né puericultrici diurne per insegnargli il bon-ton, e probabilmente neanche una baby sitter improvvisata per andarlo a prendere al nido. Sa che la luce dei suoi occhi sarà sballottata per mano dell’intrepido papà – lei probabilmente non avrà neanche quest'onore – fra una nonna che non ha la macchina e un nonno che ancora lavora, fra una nonna che la settimana dopo non può perché va in crociera a un nonno burbero che proprio se c’è bisogno se no ve lo potete tenere. Forse anche una zia che frequenta l’Università si offrirà di badare al piccolo, per solidarietà nei confronti di due poveri genitori che non possono permettersi tate, baby sitter, badanti né tantomeno puericultrici.


Comunicazione di gravidanza, ovvero come rassicurare il capo





Società PincoPallo
Via Ogni Speranza
00000
L’isola che – purtroppo - c’è.
C.a. The Boss



Egregio The Boss,

Le scrive Babywish, la sua affezionata dipendente a termine. Sono consapevole della sua scarsa familiarità con l’inglese, ma se solo potesse intuire dal nome che porto la ragione di questa mia, mi renderebbe le cose molto più semplici, oltre a poter risparmiare il Suo cronometrato, preziosissimo, tempo.

So benissimo che siamo sotto organico, e so quanta fatica Le costa concedermi anche solo un’ora di permesso chiesta con otto mesi di anticipo. Nonostante ciò, devo comunicarLe che prima o poi dovrà fare a meno di me per qualche giorno.

Se quando questo succederà Lei avrà ancora il coltello dalla parte del manico per decidere di me, del mio futuro, della mia neonata famiglia, voglio sperare che si metterà gentilmente una mano sul cuore e una sulla coscienza, e si ricorderà di essere uomo e pater familias prima che The Boss. Ruolo che peraltro, naturalmente, Le riconosco appieno.

Pertanto la voglio rassicurare sin d’ora, con estremo anticipo, del fatto che io sarò sempre la stessa ammirevole, irreprensibile e instancabile collaboratrice, e che nulla muterà nel nostro rapporto di lavoro.
Mi sento in dovere di rassicurarla sul fatto che lavorerò fino a quando il ginecologo non mi bloccherà al letto con le catene, e se questo non succederà aspetterò che mi si rompano le acque facendo appostare un’ambulanza in Via Ogni Speranza, nell’Isola che – purtroppo – c’è, così da essere pronta a correre in ospedale senza perdere neanche un prezioso minuto di attività lavorativa. Se avrò una telefonata in corso Le assicuro che la concluderò con la massima cordialità prima di avviarmi verso l’ospedale. Le chiedo solo la cortesia di ricordare al signore delle pulizie di tenersi pronto ad asciugare sotto la mia scrivania, perché magari nella fretta del momento di quello potrei dimenticarmi.

Le comunico che quando il bimbo sarà nato, intendo farlo crescere precocemente. La felicità di una creatura merita di essere sacrificata per un fine più alto, costruire insieme a Lei il nostro roseo futuro di lavoro, Egregio The Boss. Mio figlio non prenderà certo il latte dalla mia tetta ogni due ore; casa mia diventerà una succursale della Nestlè e mio marito sarà un orgoglioso Mammo improvvisato. Per rendergli la vita più semplice, tuttavia, cercherò di far fruttare al meglio le poche ore da mamma che l’ambito lavoro presso Sua onoratissima Azienda mi lascerà, insegnando al mio bambino a fare la pipì e la cacca da solo sul vasino sin dai primi mesi di vita.
A un anno mio figlio avrà già le chiavi di casa, e a due si troverà un impiego redditizio. Prima ancora che il mio contratto di lavoro presso la Sua Spettabile Società scada, Egregio The Boss, mio figlio sarà forse già in grado di mantenermi, togliendo Lei da qualsivoglia imbarazzo.

Desidero inoltre prometterLe che, quando il mio bambino andrà all’asilo nido, se una qualche maestra molesta e inopportuna mi chiamerà avanzando la pretesa che io vada a riprendere il pupo affetto da febbre asiatica, fingerò un guasto alla linea telefonica facendo rumori con la bocca. Poi spegnerò il telefono fino alle ore 18.00, quando andrò di persona a verificare che il piccolo sia sopravvissuto, e se sia ancora all’asilo o se invece – dato che l’asilo chiude alle ore 16.00 e non alle 19.00 – la suddetta disturbatrice non abbia per caso depositato il corpicino febbricitante presso il convento delle Suore Orsoline e una denuncia per abbandono di minore a mio carico presso il primo posto di polizia.

Nel ringraziarLa sentitamente della Sua sempre gentilissima e apprezzata collaborazione, colgo l’occasione per porgere i miei più cordiali saluti.
In fede,


Babywish

Desiderare, in un mondo difficile

Un desiderio molto forte. E non sa dove metterlo, come sistemarlo. È disordinato e ingombrante. Ma dolcissimo e inebriante. Un desiderio desideratissimo. Lei se lo sogna la notte e ne parla quasi tutti i giorni al malcapitato di turno, alle amiche che ci sono già passate, con le quali si sente chissà con che diritto libera di scatenare tutta la sua ansia repressa (A te come è andata? Ma quanto fa male da uno a mille milioni di trilioni?? Ma poi come si fa a conciliare tutto? Ma come fai? Ma a te qualcuno ti aiuta!!?) e a quelle che invece, non si spiega come, manco se lo sognano, e farebbero volentieri a meno di certi discorsi, con i quali imperterrita le assilla; a sua madre (Ma tu cosa ne pensi? Sono un’incosciente se lo faccio? Posso contare su di te?); addirittura al cane (Ma quanto vi vorrete bene, e quanto andrete d’accordo? Ti farà qualche dispetto ma so che sarai una brava cagnolona e me lo tratterai coi guanti). E poi naturalmente al suo Lui. A dire il vero con Lui se lo sognano anche di giorno. È nelle loro infinite chiacchierate sul letto disfatto, o sul divano scomodo, o nella vasca da bagno troppo corta che si ostinano a condividere. È nelle loro battute più stupide sul futuro, nei progetti per l’acquisto di una casa nuova, nelle ipotesi e nelle congetture speranzose (“speriamo che non prenda i capelli del papà – calvo, ndr – o il naso della mamma" che da qualche tempo, chiedetelo alla scienza, se sa dare una ragione, pare stia inesorabilmente lievitando…"speriamo che prenda i capelli della mamma e il naso del papà, e le tette della mamma e non del papà possibilmente"). È nell’organizzazione per quello che potrebbe essere il loro ultimo viaggio all’avventura, vissuto con intima malinconia mista a una frizzante energia che scaturisce dal profondo e che va a finire lì, dove lei lo perde del tutto. Nell’assoluto e infinito ignoto.

Proprio laddove il sogno diventa più realistico, incredibilmente perde di spessore e diventa come rugiada intangibile.

Ma se lei esce di casa alle 8 di mattina e torna, per gentile concessione del fato, alle 7 di sera; se, nonostante questo, guadagna 1000 euro al mese, sempre per gentile concessione; se il suo Lui è impiegato in ennemila lavori ma comunque quello principale oggi c’è-domani forse anche-dopodomani chissà; e se dal canto suo Lei ha un contratto a scadenza né troppo breve né troppo lunga; se tornando a casa alle 7 di sera trova pile da stirare, la casa da rassettare, la cena da cucinare, il corso di spagnolo e quello di yoga da seguire, e alla fine non stira, non rassetta, spesso non cucina, e se proprio c’ha voglia di stendersi sul letto salta pure yoga e spagnolo, e comunque se stira non rassetta e se cucina non va a yoga, e se va a spagnolo non stira, e la tiritera si ripete così all’infinito per tutta la settimana, e menomale che l’esperto nel fare la spesa è Lui perché se no lei entrerebbe in politica solo per farsi aprire un 7 Eleven sotto casa; e se anche volendo – e generalmente non vuole – comunque non avrebbe tempo di fare tutto, prova ne è che si ritrova a scrivere qualche riga a quest’ora improponibile (l'ora di stesura è diversa da quella di pubblicazione -ndr) per una che domani si deve alzare alle 7, e uscire alle 8, appunto! E se anche se volesse scrivere in pausa pranzo non potrebbe, che un’ora non è mai abbastanza per scaldarsi il pranzo, ingurgitarlo, fare due chiacchiere coi colleghi, prendere un caffè con annessa dose di nicotina, socchiudere gli occhi per un millesimo di secondo almeno, nell’infondata speranza di trovare un millesimo di secondo di ristoro, lavarsi i denti e tornare in ufficio. Specie quando quell’ora si dimezza per la minchiata dell’ultimo secondo. Oltretutto lei fa pure un lavoro frenetico. Che aggiunge un altro "se" alla lista.

Gli interrogativi sono un’onda incontrollabile, specie per una mente rimuginante e perversa come quella che malauguratamente alberga nella sua calotta cranica.

Di conseguenza la decisione è non porsi più domande a cui non c’è risposta, non impostare più fantasiose equazioni spazio-temporali che nemmeno Margherita Hack riuscirebbe a risolvere. Ma vivere. E raccontare cosa significa desiderare di essere una mamma, con tutti questi “se”, in questo mondo difficile.